Il bello degli anni 70

Il bello degli Anni 70

 

Ma quale decennio "in grigio". La vita fu come la tv: a colori

MARCO BELPOLITI

Qual è il colore della R4 in cui è acciambellato il corpo di Moro? Grigio. E il colore del corteo in cui i giovani autonomi puntano la pistola contro la polizia? Grigio. E ancora: di che colore sono i corpi nudi dei ragazzi che danzano al Parco Lambro? Grigi. Eppure nel 1977 iniziano le trasmissioni della televisione a colori, cui si è fieramente opposto La Malfa, con uno scatto da autentico calvinista: la tivù deve restare il bianco e nero; cade persino un governo per questo. Per ritrovare il colore degli Anni 70, i vestiti sgargianti, le decorazioni degli Indiani metropolitani, per riavere i colori delle vetrine di Fiorucci a Milano, le stoffe indiane, le tuniche degli «arancioni», i colori delle automobili e il rosso delle Ferrari, per riavere il colore dei filmBarry Lyndon (1975) è il film più a colori «naturali» di tutta la storia del cinema – bisogna fare uno sforzo di memoria, oppure ricorrere alle pagine dell’Espresso-colore, allegato al settimanale. Il colore non abita le nostre memorie; le stesse immagini dei fotoreporter dell’epoca, su cui abbiamo modellato i nostri ricordi personali e collettivi, sono sempre in bianco e nero. Lì le periferie urbane appaiono più squallide della realtà: in quei rettangoli di carta i campetti da calcio – la Roma delle borgate di Pasolini, la Milano estrema di Testori – sfumano verso il grigio.

In realtà negli Anni 70 il colore raggiunge un culmine: una città sgargiante, quasi psichedelica, prima che la cromofobia di Armani e dei creatori di moda rendessero i vestiti simili agli abiti di un pastore luterano. Gli Anni 70 decretano il trionfo del corpo, portando a compimento la rivoluzione iniziata a metà del decennio precedente. Il colore scende nelle strade: Living Theatre, Gorilla Quadrumano di Scabia e degli studenti del Dams, Marco Cavallo al manicomio di Trieste con Basaglia. Dario Fo, non ancora Premio Nobel, polemico autore di commedie antisistema, nei filmati d’epoca veste maglioni arancioni, e non i dolcevita neri alla Strehler. I corpi nudi che appaiono sulle pagine dei settimanali, di hippy e figlie dei fiori, sono rosa, solo a tratti arrossati o congestionati, ma mai bianchi o biancastri. Il bello degli Anni 70 è la Terra vista dalla Luna: un pianeta azzurro, la cui immagine ci arriva dallo spazio attraverso le missioni Apollo. Il decennio inizia il 21 luglio 1969 con lo sbarco lunare, e termina il 2 agosto 1980, alla stazione di Bologna, la prima strage a colori della storia repubblicana, come ha notato Riccardo Bocca. Il bello degli Anni 70 è nei cortei, nelle bandiere, nei cartelli, un fiume più o meno carsico che attraversa le città italiane ma raggiunge anche l’India, il Nepal, l’Afghanistan, la via verso Oriente non ancora chiusa, che transita attraverso i tessuti, gli arredi, gli addobbi. Sono colorati – sui quotidiani in bianco e nero – persino i lugubri drappi delle Brigate Rosse.

Il colore che trionfa è quello della plastica, dei mobili, delle suppellettili, dell’oggettistica, del design radicale che debutta in quel periodo e trionferà negli ‘80. Sono i piccoli e grandi maestri del decennio: i due fratelli Castiglioni, Enzo Mari, Magistretti. Negli Anni 70 il design raggiunge il suo culmine: allegro, ironico, inventivo, e sempre colorato. È il trionfo del made in Italy proprio mentre si entra nel tunnel del terrorismo, quasi che la società italiana del decennio vivesse come una doppia vita, una sorta di allegra schizofrenia: da un lato, la spirale assurda e terribile del terrorismo; dall’altro, l’allegria di una società che cresce nonostante la gelata della crisi petrolifera, che cerca nuove forme di espressione grafica, visiva, artistica. Questo è il periodo in cui trionfa la società di massa, anche attraverso strappi e messe in discussione dello status quo – divorzio, aborto, politicizzazione, conflitti di classe -, toccando dei vertici di partecipazione mai più raggiunti. Gli anni ‘70 sono l’epoca della riscoperta dell’amore e della tenerezza, del femminismo e insieme dei sentimenti. Sillabario n. 1 di Goffredo Parise esce un mese prima delle Città invisibili di Calvino. Siamo nel ‘72. Reca in copertina un’opera di Giosetta Fioroni, Smalto rosso con foglie, piume e sassi, che raffigura un cuore e contiene foglie, petali, rametti, penne. «Un bel cuore pop ma anche romantico», dice Giulio Einaudi, il suo editore. Il libro di Parise è un diario sentimentale, tutto delicatezza e malinconia, nessuna passione bruciante, se non quella del desiderio. Incarna perfettamente la leggerezza di cui Calvino scriverà molti anni dopo, e di cui Le città invisibili, il suo capolavoro, fornisce il primo esempio. Sulla copertina del volume dello scrittore ligure c’è un’isola di pietra che galleggia nel vuoto: pesante e leggerissima nel medesimo tempo. Un quadro di Magritte.

Cinque anni dopo arrivano le lettere a Lotta continua, i discorsi sul cuore e i sentimenti, le tenerezze tra compagni. Anche l’omosessualità chiede cittadinanza e visibilità. Quest’onda di affetti non si è ancora trasformata in «riflusso». Convive con la politica. Certo, nel ‘76 arriva Porci con le ali, con Antonia e Rocco che fanno l’amore per la prima volta e poi decidono di non rifarlo più tra loro se non l’avranno fatto con altri, in obbedienza, come ha osservato Gianfranco Marrone, allo «spirito dell’epoca». Nel decennio, ci sono almeno due libri sull’innamoramento: Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (‘77) e Innamoramento e amore di Francesco Alberoni (‘79). La vera opposizione, ha scritto nel catalogo della mostra Marrone, è tra tenerezza e desiderio, tra languore e scarica erotica. Una doppia pulsione che attraversa il periodo e che, a tratti, si tramuta in funesto desiderio, la cupio dissolvi dei terroristi, o in amore della lontananza di mistici e nuovi monaci. Dentro il mondo, lontano dal mondo. Anche questo appartiene a questo contraddittorio del decennio.

  1. Lascia un commento

Lascia un commento