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neo.futurismo 2000

neo.futurismo 2000

Copertina neo.futurismo 2000 Copertina neo.futurismo 2000
 VOGLIO RICHIEDERLO! 

Autore: Roberto Guerra
Data: Maggio 2011
Genere: Saggistica
Descrizione:
La società liberale oggi è intesa in senso piuttosto restrittivo, confinata all’interno di un’economia di mercato nevrotica e di una democrazia formale in declino. Eppure, in via di principio la dimensione della libertà potrebbe accogliere un dibattito ben più ampio della scelta tra i pochi metodi disponibili per continuare a produrre merce senza mandare a picco il pianeta. In teoria, in epoca postideologica sarebbe anzi opportuno ricercare nuove prospettive di pensiero, nuovi strumenti concettuali, al fine di progettare più efficaci forme di convivenza serena tra esseri umani, e tra esseri umani e crosta terrestre.
Tra i pochi a sfuggire ai bassi numeri del conformismo odierno, Roberto Guerra ha cercato e trovato questi pensatori a prima vista eccentrici dell’era postcapitalista, comunque pacifici, liberali appunto e ragionatori. Così esperienze tecno-libertarie e neoutopistiche sono state catalogate, descritte analiticamente e in qualità di risorse messe a disposizione dell’opinione pubblica. Da questo lavoro, importante e innovativo, sono nate le macchine selvatiche di Roberto Guerra, teste pensanti di un transfuturismo cui nessuno prima aveva rivolto l’attenzione.
Se l’Europa diventerà qualcosa di diverso da un’isterica fabbrica di cemento i cui operai sono comunque tutelati da un ipocrita regime sindacale, dovremo ringraziare anche questi animali-robot scoperti dal nostro futurista-esploratore digitale.

Marco Boni

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Alessandro Amaducci: artista elettronico del 2010

Alessandro Amaducci: artista elettronico del 2010

da supereva.it/controcultura:

La nuova arte digitale e desiderante italiana brilla a Barcellona (13-16-gennaio-2011)

Alessandro Amaducci  Digital Video ArtNell’avanguardia italiana, sempre in progress, al di là di certo manierismo specifico, dei media stessi poco aggiornati o addetti ai lavori spesso autoreferenti o intellettali specializzati, l’arte digitale o elettronica o video o net/computer art ha segnalato nel 2010 diversi artisti doc, alcuni anche già evidenziati in questo spazio controculturale.

Forse, le mappe son sempre importanti, pur in territori sempre imprecisi e mai esaurienti (il web è un universo, le società complesse attuali dei multiversi in scala!), tra i tanti, nel 2010 ha spiccato per produzioni particolarmente efficaci, persuasive, colme anche di bellezza archetipica e altri motivi, Alessandro Amaducci, certamente tra i più costanti ed attivi.

Quasi sempre in video tour, anche l’ancor giovane artista digitale, presente alle più importanti rassegne d’arte elettronica: a memoria……e tra le più recenti: Madatac 2, Muestra Abierta de Arte Audiovisual Contemporaneo, Madrid, 1-5 Dicembre; Optica II Festival Audiovisuel da Paris, 17-20 novembre 2010; The Scientist International Video Festival Ferrara 8-9-10-ottobre 2010, oltre a Visionaria (2010) e, ouverture del 2011 – cronaca live di questi giorni, a
NU’2 VideoDansa International Barcelona Prize, nell’ambito del Festival IDN – Image, Dance and New Media, Barcellona,
dal 13 al 16 gennaio 2011.

E, soprattutto nulla di manieristico o banalmente estetizzante, per forza trendy e alla moda: i dinamici e sempre imprevedibili videozoom di Amaducci, evidenziano una personalità digital non comune e globale, rispetto alla materia… dall’artista riformattata, plasmata, in dimensione squisitamente poetiche e poietiche e conoscitive.

Arte e scienza vagheggiavano i padri dell’avanguardia, dai futuristi a Kandisnsky e Franz Marc allo stesso Stockhausen o- nel settore- Naim June Paik e altri.

Amaducci si muove in questa costellazione: e non solo artista, anche metartista, esperto analitico delle nuove tecnologie, che trasmuta in opera d’arte attraverso una cifra medium non laterale o riduzionista, piuttosto quasi olistica, meglio netsferica.

Frullando in una sintesi complessa ma assai diretta e comunicativa, molti input standard delle avanguardie, ricombinandoli quali anelli evolutivi verso un nuovo corpo elettronico, senza organi, quasi, immateriale, umano e finanche postumano.

Certo concettualismo è start, punto di partenza, verso traguardi produttivi assolutamente pop. Certa provocazione sperimentale trascende il laboratorio soggettivo e di nicchia: la messa in forma, l’informazione artistica danza quasi per sospensione miracolosa di una microgravità spazio-temporale, tra ricerca del sublime e perturbanza, acido corrosivo sociale, l’avantgarde con la parola non minuscola, ma nanorivoluzionaria…

Certa spesso altrove rimossa, simbiosi, uomo-macchina, corpo tecnologia, sessualità virtualismo, in Amaducci è proiettata letteralmente nel ciberspazio, metaforicamente nel Reale, allo zenit. Ne esita un torubillon, una technodance vertiginosa e seducente, perversa ma a livello di giochi dell’Es, non banalmente liberatori, ma dal godimento.

Tra echi storici del nuovo immaginario technoscientifico artistico e culturale, tra Videodrome di Cronenberg, il Kubrick atipico di Eyes Wide Shut “>Eyes Wide Shut, decenni di teatro d’avanguardia o body art, le suggestioni di un Baudrillard, pixels culturali intercambiabili ad personam, Amaducci compone per l’arte digitale una colonna sonora visual e electro in dinamica dis-armonia con lo zeitgeist degli anni duemila.

Risultati già nettamente, anzi… net-digital-mente significativi!

2 commenti

Tuli Kupferberg, l’ultimo hippy

12 CULTURA & VISIONI
15.07.2010
  • APERTURA
      |   di Francesco Adinolfi

    UNDERGROUND
    Tuli Kupferberg, l’ultimo hippy
    È morto a 86 anni, il poeta e fondatore
    dei Fugs, gruppo storico della controcultura Usa. «A tredici anni ero
    già politicamente estremista, ero rivoluzionario già prima che la band
    nascesse, non sono un realista socialista; i miei obiettivi
    rivoluzionari sono l’anarchia, il pacifismo anarchico, il comunismo.
    Spero in una società senza classi»

    «Ho visto hipster investiti dai taxi ubriachi della Realtà
    Assoluta che si buttavano dal ponte di Brooklyn – questo è successo
    davvero – e se ne andavano sconosciuti e dimenticati tra la foschia
    spettrale di Chinatown». È un verso di Urlo, la poesia di Allen
    Ginsberg, e la persona «del ponte» a cui l’autore fa riferimento è Tuli
    Kupferberg, 86 anni, scrittore, poeta, attore, componente dei Fugs,
    scomparso lunedì in un ospedale di Manhattan dove era ricoverato in
    gravi condizioni di salute dopo i due infarti dello scorso anno. Il
    salto dal ponte (non di Brooklyn come annotò erroneamente Ginsberg ma di
    Manhattan) c’era stato davvero. Nel 1945 un terribile esaurimento
    nervoso aveva portato Kupferberg a quell’atto disperato. In seguito
    molti fan cambiarono di segno all’evento, trasformandolo in una prova di
    grande coraggio. Tuli se ne rammaricava e provava grande imbarazzo.
    Sotto sotto forse malediva anche un po’ Ginsberg per aver disvelato al
    mondo quella follia. Ma tant’è. Lui e Ginsberbg erano intimi, stessa
    formazione beat, stessa fibra pacifista e antagonista. Kupferberg a New
    York lo conoscevano tutti, spesso lo incontravi a Lower Manhattan mentre
    disegnava vignette che regolarmente vendeva al settimanale Village
    Voice; era il volto di un tempo svanito, divorato da un capitalismo
    realizzato a cui Tuli si era sempre sottratto. Lo vedevi girare
    trasandato e hippy come se fosse appena uscito da una manifestazione
    anti-Vietnam, negli occhi riconoscevi decenni di lotte e insurrezioni,
    da solo e con i suoi Fugs, gruppo di riferimento del rock underground
    statunitense. Davvero sotterranei, davvero anti-tutto, con quelle
    canzoni – che Tuli definiva «parasongs» – costruite per parodiare
    apparentemente altri pezzi (cambiandogli le parole) e in realtà per
    attaccare l’intero sistema della cultura dominante. I Fugs erano davvero
    underground, nell’accezione più pura del termine: musica dal e del
    sottosuolo, nata per emancipare la mente, affrancarla da coercizioni
    commerciali e sociali. Il gruppo non faceva leva solo sui testi ma anche
    su un suono caotico in continua evoluzione/sperimentazione, in questo
    modo sottraendosi ai vincoli di un sistema sociale e politico che nega
    all’individuo il diritto di disporre di sé. Del resto questo è il vero
    senso politico dell’underground, questo era il vero senso dei Fugs.
    Va
    da sé che se si eccettuano i primi tre dischi con la Esp, etichetta
    iper-sperimentale, il resto della carriera musicale dei Fugs fu una
    lotta continua. Accettarli era difficile, quasi impossibile. Addirittura
    incisero per la Reprise, la casa discografica di Frank Sinatra che
    pretendeva di vagliare tutto il materiale composto. Eppure, sarà stato
    per la pressione di quel vocalist inimitabile, sarà stata la maturità
    sonora acquisita nel tempo, sta di fatto che Tenderness Junction, il
    debutto su Reprise, si rivelò un album avvincente, ben suonato, con
    Ginsberg ospite che cantava Hare Krishna e le registrazioni dello
    storico esorcismo del 1967 davanti al Pentagono per annientare gli
    spiriti bellici e maligni che secondo la band albergavano nell’edificio.
    Tuli, Ed Sanders e Ken Weaver, i tre Fugs, si erano formati nel 1964
    dopo essersi incontrati alla Peace Eye Bookstore, la libreria di
    Sanders, un’ex macelleria kosher. Venivano tutti e tre dagli happening
    di lettura dell’era post-beat. In particolare Sanders si cimentava come
    editore underground pubblicando riviste come Fuck You, subito fatta a
    pezzi dalla censura. Tutti e tre lavoravano con le parole e sapevano ben
    poco di musica. Tutti e tre ciclostilavano come matti, spandendo
    ovunque fotocopie, vero motore della rivoluzione del ’68 (e poi alla
    base del fai-da-te del punk). Tuli scriveva poesie, raccolte di consigli
    (1001 modi per vivere saggiamente, senza lavorare, per fare l’amore,
    per rifiutare il servizio militare), pubblicava riviste letterarie come
    Birth o Yeah. Poi, un giorno, nel 1964, la «conversione». I futuri Fugs
    avevano assistito con Ginsberg a un concerto rock e in quell’occasione
    avevano ballato tanto, a lungo; i loro corpi si erano lasciati andare,
    trasportati dal suono, cullati. Quella era la nuova strada da
    intraprendere. E contemporaneamente anche la loro definitiva condanna
    artistica. Perché se da un lato pezzi di Kupferberg come Kill For Peace
    («Uccidi, uccidi che ti fa bene. Così me l’ha spiegato il mio
    Capitano»), Morning Morning o The Garden Is Open erano bombe vocali,
    dall’altro la musica cedeva quasi sempre il passo. Rispetto a Zappa o a
    Jerry Garcia (Grateful Dead), artisti ideologicamente affini ai Fugs,
    giunti a idiomi lirici evoluti attraverso la musica, il gruppo di Ed e
    Tuli erano al contrario arrivati alla musica solo attraverso il testo.
    Ma che importa, in fondo i Fugs – il nome deriva da un’imprecazione
    usata da Norman Mailer nel suo Il nudo e il morto – erano qualcosa di
    genuinamente altro rispetto al rock del tempo. I loro show erano
    anti-teatro, anti-cabaret, erano nuovo cinema, erano Kupferberg che sul
    palco faceva il pagliaccio, svuotava valigie zeppe di cianfrusaglie, si
    trasformava da marine in nazista, e il pubblico, spesso, usciva
    sconvolto. Chi restava era in estasi, travolto dalle botte percussive
    del batterista Weaver, dai suoni ispidi di collaboratori come Peter
    Stampfel e Steve Weber (gli Holy Modal Rounders), dalle parole di Tuli
    da cui si sprigionava un acume poetico tutto dentro le sue radici
    ebraiche. Kupferberg era nato a New York il 28 settembre 1923. Lo scorso
    gennaio Lou Reed e i Sonic Youth avevano organizzato a Brooklyn un
    concerto di beneficenza per pagargli le spese mediche. Lascia la moglie
    Sylvia Topp, tre figli e tre nipoti.

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Milano: prosciolto Bros, re della Street Art

13/07/2010 – 13:58

Milano: prosciolto Bros, re della Street Art

La fa franca il writer Daniele
Nicolosi, uno dei principali esponenti della Street art italiana.

Bros, il nome d’arte di Nicolosi (definito da Vittorio Sgarbi “il
Giotto moderno”), è stato infatti prosciolto a Milano dall’accusa di
aver imbrattato alcuni edifici cittadini. Il giudice ha dichiarato la
prescrizione per un episodio, un graffito sulle mura del carcere di San
Vittore, e l’estinzione del reato perché è stata ritirata la querela
riguardo a un edificio privato, mentre in un terzo caso ha addirittura
giudicato improcedibile la causa per mancanza della querela.

Il Comune di Milano, costituitosi parte civile, aveva invece chiesto
la condanna per il writer, autore tra le altre cose anche di importanti
mostre e cataloghi, sostenendo che quello praticato da Bros fosse un
deturpamento e un imbrattamento di edifici pubblici e privati, piuttosto
che una forma d’arte, aspetto su cui al contrario ha insistito la
difesa del giovane milanese. Gli avvocati difensori di Nicolosi hanno
sostenuto infatti che quelle realizzate dal writer sono forme di
espressione artistica e dunque non possono essere punite come reato.

Il giudice ha tentato una sorta di mediazione, riconoscendo i reati
ma dichiarandoli nello stesso tempo non punibili per prescrizione o
mancanza di querela. Palazzo Marino aveva invocato anche 18mila euro a
titolo di risarcimento.

“Sono contento, è ovvio, ma purtroppo il giudicenon ha risolto il
dubbio se questa è arte oppure vandalismo”, ha commentato Bros dopo la
lettura della sentenza. E a proposito del progetto del Comune di
assegnare spazi selezionati ai writer, Bros non ha escluso alcuna
possibilità: “Bisogna valutare, perché l’appropriazione di uno spazio
per un artista non è solo quando lo fa in modo illecito. Bisogna però
vedere se gli interventi che ci chiedono sono interessanti: se per
esempio mi proponessero di realizzare un graffito in un tunnel che da
Garibaldi porta alla nuova zona della moda, direi di no”.

E una battuta ironica per concludere: “Come fa il Comune a
selezionare artisti per realizzare le sue location? Vedendo le loro
opere sui muri di Milano”.

Raffaele Emiliano

PS….L’Italia è un paese ke stupisce…c’è il cancro…ma ci sono anke dei buoni anticorpi democratici e civili…DACO

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Le utopie generano artisti

Le utopie generano artisti

"Dipinto Blu" di
Kandinsky esposto alla mostra veneziana

Alla Guggenheim dai Nazareni al Bauhaus

FIORELLA MINERVINO
VENEZIA

Che gli ideali utopici abbiano alimentato e
seguitino ad alimentare tuttora gli artisti è cosa nota, tuttavia la
meditata esplorazione, compiuta da Vivien Green dal Guggenheim
newyorchese, si impone per indubbia suggestione. La curatrice ha
ampliato i confini di coloro che hanno seguito le utopie nell’arco di
circa due secoli, a partire dall’Illuminismo, cioè dalle rivoluzioni
francese e americana, aggiungendo confraternite, movimenti e artisti.
Così abbiamo i primitifs francesi, in opposizione al neoclassicismo di
David, Nazareni e Preraffeliti inglesi con il loro «proseguimento» in
Arts and Crafts ed Estetismo, l’americana Cornish Colony. Ma la
galoppata della Green raggiunge lo scatto nel secolo scorso, quando si
passa da Deutsche Werbund e De Stijl alle avanguardie russe, e
geograficamente in senso inverso dal Suprematismo di Malevich, e dal
Costruttivismo russo al Bauhaus di Weimar e Dessau. È pur vero che in
comune dal calare del ’700 sino al termine del XIX secolo gli artisti
di ispirazione utopica vollero far coincidere arte e vita, isolati in
«cittadelle ideali», dove talora si mitizzava il ritorno alla natura
incontaminata, servendosi di linguaggi artistici ispirati al passato,
magari come reazione all’industrializzazione incalzante. Altre volte si
teorizzava l’abbattimento dei confini fra le arti e tra arte e
artigianato dando uguale dignità a pittura, scultura, architettura e
design.

In catalogo tutto ciò è espresso con chiarezza e in
dettagli minuti; quanto alla mostra, risulta ricca d’una settantina di
dipinti, disegni, grafiche, tessuti, sculture, mobili, oggetti di
design, foto, bozzetti per manifesti. Indubbiamente vanta opere
notevoli, talora eccezionali specie nella parte ultima, là dove
compaiono Kandinsky per il Bauhaus con Dipinto blu 1924, i Klee,
piuttosto che i superbi Mondrian, Vantangerloo, la celebre Poltrona
rossa e blu di Rietveld, 1918, per De Stijl. Meno persuasiva risulta
(forse per la difficoltà nel reperire le opere e ottenere prestiti) la
prima pur interessante parte. Alcuni movimenti come quello dei Nazareni
sono illustrati con scarni dipinti di Pforr e Overbeck, ma senza
quelli «cruciali», sostituiti da disegni o incisioni, come Italia e
Germania di Overbeck. Ed è un peccato soprattutto per coloro che
ricordano le splendide esposizioni in Europa dedicate a tali movimenti.

Più o meno in egual modo, con pochi dipinti ma molti disegni,
tessuti e illustrazioni, sfilano i Preraffaeliti con Millais, Hunt,
Rossetti, Morris e Burne-Jones. Qui abbiamo alcune vetrate e il superbo
Arazzo Angeli laudantes, 1898, restaurato e prestato dal Metropolitan.
Tra gli artisti che completano la mostra Dewing e Saint-Gaudens, poco
conosciuti in Europa, pertanto da riscoprire, poi Pissaro,
esageratamente celebrato come Signac e Cross, nonché Toorop e altri
nutriti, alla pari di tutti i Simbolisti, di istanze sociali e ideali
anarcoidi. Una mostra da non perdere, con qualche delusione che il
catalogo provvede a temperare.

UTOPIA MATTERS
DALLE
CONFRATERNITE AL BAUHAUS
VENEZIA, COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM,
FINO
AL 25 LUGLIO

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Trezzo, il sindaco leghista rifiuta la collezione d’arte di De Micheli

Sono 800 preziose opere del noto critico e storico dell’arte

Trezzo, il sindaco leghista rifiuta
la collezione d’arte di De Micheli

La giunta: «Non c’è posto». Gli eredi non demordono: «Allora la daremo ai trezzesi»

Mario De Micheli

«Egregio signor sindaco, perché la Giunta da lei presieduta si
rifiuta di accettare la donazione dell’importante collezione d’arte
moderna e contemporanea raccolta dal grande critico e storico dell’arte
Mario De Micheli?». È l’incipit della lettera aperta indirizzata a
Danilo Villa, primo cittadino leghista di Trezzo sull’Adda, dagli eredi
di Mario e Ada De Micheli. La donazione «respinta», con cui Gioxe e
Anna volevano onorare la memoria dei genitori e al tempo stesso far
cosa utile alla collettività, raccoglie circa 800 opere tra dipinti,
sculture e disegni dei maggiori artisti italiani del Novecento:
Guttuso, Morlotti, Sassu, Treccani, Trubiani, Dova… E dunque la
lettera reca numerose firme autorevoli, dagli storici dell’arte
Vittorio Sgarbi e Martina Corgnati all’architetto Mario Botta, da Pinin
Brambilla Barcilon, la restauratrice del Cenacolo, alla poetessa Vivian
Lamarque.

La sorpresa del rifiuto – È questo l’ultimo capitolo (il
prossimo sarà il convegno del 7 febbraio, caldeggiato dal comitato pro
donazione nato nel frattempo) di una singolare vicenda che contrappone
le ragioni del Comune alla volontà degli eredi di non disperdere il
patrimonio dei genitori. Perché a questi ultimi non par vero un simile
rifiuto, tanto più che la precedente giunta di centrosinistra aveva
volentieri accolto la donazione dei figli di Mario De Micheli, figura
di spicco della cultura milanese e italiana degli Anni 50 e 60, ex
partigiano, critico d’arte dell’Unità, docente alla facoltà di
architettura del Politecnico, grande traduttore di Majakovskij e
soprattutto autore del longseller Le avanguardie artistiche del
Novecento, 42 edizioni e 230 mila copie vendute dal 1966 quando la
Feltrinelli subentrò all’editore Schwarz.

La chiusura del cerchio – «A metà degli Anni 80 — racconta Gioxe
De Micheli — mio padre donò alla biblioteca di Trezzo più di 30 mila
preziosi volumi e un centinaio di disegni eseguiti da Guttuso,
Cascella, Cassinari proprio durante la Resistenza, dando vita a una
nuova sezione che richiama studiosi da mezzo mondo. Alla morte dei miei
genitori, che sono sepolti proprio qui a Trezzo, abbiamo deciso di
donare tutta la loro collezione al Comune per "chiudere il cerchio".
Era anche un modo per ricordare il loro impegno civile, come la loro
presenza sul muro dei Giusti a Gerusalemme». Detto fatto, anche se le
cose burocraticamente sono lente e si arriva alla delibera di
accettazione nel giugno del 2009. Il primo atto dell’amministrazione,
che si era impegnata a valorizzare la collezione acquisita, è una
mostra al Castello con i ritratti a De Micheli firmati da famosi
artisti. Ma, a luglio, con il cambio di giunta, arriva la sorpresa,
ovvero la revoca della precedente delibera. «Vengo a saperlo in via
ufficiosa a ottobre — prosegue Gioxe, 63 anni — mi dicono che sarebbe
stato troppo costoso onorare gli impegni, ma nessuno voleva fare il
Beaubourg! Certo è chiaro che non dovevano mettere i quadri in
cantina».

Le ragioni del Comune – E la controparte? «Non abbiamo gli spazi
per poter accogliere questi dipinti— dichiara deciso il sindaco Danilo
Villa— la giunta precedente prevedeva addirittura un museo, e quanto
alle sale del Castello, abbiamo in progetto iniziative culturali
d’altro tipo. Certo alcuni pezzi sono di valore, ma c’è già la sezione
della biblioteca. In più questa "integrazione" è stata tenuta per anni
in uno scantinato, in condizioni inadeguate. È vero che è una raccolta
molto cara agli ambienti della sinistra, ma la politica non c’entra, è
solo una questione economica». Intanto la polemica si fa più aspra
perché gli eredi De Micheli non demordono. Invitati perentoriamente a
«sgomberare» il deposito pubblico dove sono custodite le opere, danno
vita a un Comitato civico che dovrebbe accogliere la raccolta in attesa
di tempi migliori: se al Comune proprio non interessa, forse sarà più
gradita ai trezzesi…

Giovanna Pezzuoli
27 gennaio 2010

PS c’è da ridere…?

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Arte in rete

Intervista a Miltos Manetas, ideatore del Padiglione Internet
all’ultima Biennale di Venezia. In esclusiva per AtCasa il futuro
dell’arte e le possibilità del web


nato in Grecia, ha studiato in Italia, vive tra Londra e Los
Angeles. Miltos Manetas è abituato a non ragionare dietro ai confini.
La sua arte, celebre quanto controversa, rappresenta la contemporaneità
più estrema, dai grandi dipinti che ritraggono strumenti tecnologici
fino ai siti web venduti come opere uniche. In occasione della Biennale
di Venezia 2009 ha curato il settore on-line che non si era mai visto –
né pensato – prima, con un Padiglione Internet cui hanno partecipato
numerosi creativi di diverso genere

Da dove viene l’idea di fare un Padiglione Internet per la Biennale
di Venezia che sia esclusivamente on line, con tanto di inaugurazione e
chiusura parallele a quelle della manifestazione ufficiale?

Internet – che oggi sta diventando sempre più "Internets" cioè
situazioni che esistono sia in rete ma anche in diversi territori
governati dalla realtà della rete – è il nostro vero "paese". A mio
avviso l’unico paese che valga la pena di difendere per proteggere le
sue libertà, scoprire e comunicare la sua arte. In Internet, abbiamo
l’occasione di creare un Nuovo Mondo, la vera America finalmente
democratica e bella dove la materia prima appartiene a tutti. Ho voluto
inaugurare un Padiglione per questo paese e ho scelto di farlo come
progetto collaterale, così Il Padiglione sarà indipendente dai diversi
capricci amministrativi della Biennale.

Che cosa è il web per te? La tua arte, che da sempre ruota
attorno a tracce riconoscibili della contemporaneità, come è approdata
alla dimensione virtuale?

"Non c’è niente di naturale nella Natura figlio mio" dice un fauno a
un giovane uomo in un film di Pasolini. Allo stesso modo, non c’è
niente di virtuale nel web, che ci coinvolge in maniera diversa ma
analoga allo spazio reale. Ora ci riempie con sentimenti di
possibilità, ora ci sembra impossibile e kafkiano – come le nostre
città – e molto spesso appare per quello che è veramente: un deserto
pieno di miraggi, esattamente come la realtà che circonda i nostri
corpi. Per il momento, il web è un deserto di schermi – per usare le
parole di Paul Virilio – e presto gli schermi spariranno. Io e la mia
generazione, che abbiamo toccato questo paesaggio, dipingiamo le sue
caratteristiche come dei neo-impressionisti, tutto qui.

Intervista al celebre e controverso artista che ha rivoluzionato il concetto di arte on-line

Hai realizzato numerose opere on-line. Siti in edizione unica,
visibili on line, spesso interattivi. Cosa spinge un collezionista a
comprare questi lavori, a preferirli magari a una tua tela di grandi
dimensioni e sicuro effetto? Pensi ci sia un logico e naturale
evolversi nel tuo lavoro, oppure vedi una frattura netta al passaggio
tra pittura e virtuale?

Non c’è nessuna frattura tra la pittura e le opere on-line: sono
ambedue vista tramite finestre. C’è invece una grande distanza tra le
opere della cosiddetta arte contemporanea – installazioni, opere
concettuali ecc. Come ha detto Degas, "l’aria che si respira nei quadri
non è l’aria che si respira in strada". È un’aria diversa quella che si
trova nelle mia pitture e le opere Internet da quella che si trova
nelle opere alla National Geographic.

Per Purple Fashion Magazine #11 avevi scritto e selezionato una
serie di testi anti-copyright. Per il Padiglione Internet hai
collaborato con musicisti, architetti, designer e altri artisti, in un
mix di virtuale e fisico. Credi che la creatività si stia muovendo
verso una realtà più fluida, alla portata di tutti? Che non sia più
necessariamente legata a un unico individuo e sia invece disposta e
incrociare linguaggi, categorie e soggetti differenti? Oppure, dietro
all’opera, rimane comunque un singolo soggetto pensante?

Secondo me, un’opera d’arte si fa da sola. È sempre stato cosi e non
cambierà. Sono una serie di casi che la creano, come un magnifico
incidente autostradale. Si può individuare una o più persone che
guidavano una o più delle prime macchine che hanno dato inizio a un
tale episodio, però è stata necessaria una sincronizzazione quasi
inconcepibile per dare al quadro della situazione la sua complessità.

Il web è comunicazione. Assenza di frontiere, terreno fertile di
contaminazioni da percorrere a piacimento. Da qui, forse, deriva la
trasversalità espressiva, artistica o meno. Il sentimento un po’
anarchico di non appartenenza a un paese, a una corrente, a un singolo
argomento. A costo zero. Tu hai detto "Websites Are The Art Of Our
Times" e anche “Outside of the Internet there is no Glory”. È questa la
nostra contemporaneità? Oppure, nel momento in cui tutto questo è
riconosciuto, diventa automaticamente parte del passato?

Infatti, il web è già superato. Questo è stato il messaggio che ho
voluto comunicare nel mio Padiglione Internet, però non ci sono
riuscito. Il primo Padiglione Internet è stato un "magnifico
fallimento" per me – per dirla con le parole di Malcolm McLaren, che
cercando di fare un casino situazionista si è trovato con I Sex Pistols
e Il Punk. Non c’è niente da fare: un creatore deve obbedire alle
sentenze della sua creazione. Quest’anno io sono partito per
distruggere l’impero degli schermi e per introdurre un Internet
diverso, e mi sono invece trovato nel mezzo di un’urgente e anche
divertente lotta sociale: quella di PirateBay. Non mi lamento…

Sei – e sei stato – un anticipatore. Più che di tendenze, parlerei
di territori e tematiche inesplorate in cui ti sei mosso da pioniere.
Quali sono i tuoi prossimi progetti? Quale pensi sarà il futuro per
l’arte e la comunicazione?

Non c’è futuro: odio i futurismi perché altro non sono che una
favola per far lavorare la gente il più possibile. I futuristi erano
infatti dei fascisti e fascisti di un altro tipo sono quelli che oggi
riempiono i mass media con le promesse di strumenti che renderanno il
nostro lavoro più facile e il nostro divertimento più solare. La verità
è che ogni nuova scoperta tecnologica porta a un’esplorazione maggiore
della nostra libertà, tempo e felicità , nasconde e traveste il mondo e
separa di più i pochi fortunati dagli schiavi che pagano il conto di
tutti. Arte oggi, come ieri, è distruggere la determinazione del reale,
togliere la "sedia" da una sedia, vedere un albero dove un albero non
c’è, mettere Super Mario a dormire nel suo videogioco e far sì che i
computer ci parlino della loro vita sentimentale.

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MADONNA E GESU’ BAMBINO La commissione Arte sacra:

MADONNA E GESU’ BAMBINO NEL MURALES

La commissione Arte sacra:
"Rappresentazione impropria"

La Commissione della Diocesi di Ancona-Osimo è intervenuta sul caso ”senza entrare nella contesa politica e nell’interpretazione di parte”, per ricordare che ”l’iconografia sacra ha una sua storia ed identità e che anche l’arte deve interrogarsi sull’impatto che un’ opera può avere ed ha nel comune sentire della gente

 

 Ancona, 16 settembre 2008 – Secondo la Commissione arte sacra della Diocesi di Ancona-Osimo il murales dipinto in piazza Oberdan ad Ancona, che raffigura la Madonna e il Bambin Gesù con il volto capovolto, è una rappresentazione "impropria". Alto 30 metri per 50 di lunghezza, è stato realizzato dagli artisti Gezi Ozmo e Run, nell’ambito di alcuni interventi di wall painting promossi dal Mac, Manifestazioni artistiche contemporanee. 

La Commissione è intervenuta sul caso ”senza entrare nella contesa politica e nell’interpretazione di parte”, per ricordare che ”l’iconografia sacra ha una sua storia ed identità e che anche l’arte deve interrogarsi sull’impatto che un’ opera può avere ed ha nel comune sentire della gente. Nel caso specifico – osserva l’organismo diocesano in un comunicato – il soggetto religioso è stato rappresentato in modo improprio” 

A sollevare il caso era stato il gruppo consiliare comunale di Forza Italia, secondo il quale l’opera è ”una profanazione delle immagini sacre di Maria e Gesù, offende il senso religioso”, e dunque va rimossa. 

PS  Sono senza parole…siamo in una dittatura….siamo nel medioevo …non puo essere vero…non ci credo.  DACO

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Intolerance. L’arte contro ogni forma di assolutismo

Intolerance. L’arte contro ogni forma di assolutismo

domenica 31 agosto 2008

In occasione del Festival di Ravello, dedicato quest’anno al tema della “Diversità”, viene inaugurata  l’esposizione di arte contemporanea “Intolerance” a cura di Achille Bonito Oliva.
di Carlotta Degl’Innocenti

Esistono esempi d’intolleranza in ogni epoca, in ogni singolo angolo di qualsiasi città del mondo. Sono espressione di violenza fisica e psicologica; convinzioni, gesti o frasi provocatorie che sfociano in estremismi incomprensibili e inconsapevoli. L’intolleranza al negativo, quella distruttiva, che corrode e s’insinua nei vari strati sociali. Ma vi è anche una forma d’intolleranza che trova una sua legittima definizione nel rifiuto e nel non accettare comportamenti etici scorretti che vanno a scapito dei codici deontologici dell’essere umano e delle forme di vita. La mostra curata da Achille Bonito Oliva si snoda in un percorso espositivo che adotta il titolo "Intolerance" dal celebre film realizzato nel 1916 dal regista David Wark Griffith , in cui l’autore ripercorreva attraverso le varie epoche della storia, dall’impero babilonese all’epoca contemporanea, forme di violenza e d’intolleranza, fornendo una "lectio magistralis" di cinema con le sequenze relazionate tra loro con la tecnica del montaggio alternato. Ma la mostra capovolge l’immagine dell’intolleranza analizzata dalla pellicola di Griffith per mostrare invece alcuni esempi dell’intolleranza dell’arte contemporanea nei confronti di ogni sorta di assolutismo.

ITINERARIO. Elaborata come un rituale di redenzione dell’arte attuale la mostra presenta artisti emblematici e capofila di una nuova forma d’arte concettualmente “impegnata” che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta fino ad oggi: da Fluxus, all’arte aborigena degli anni Ottanta fino all’estetica mutliculturale dell’ultimo decennio del Novecento.
L’alternarsi dei linguaggi artistici non omogenei, come l’arte multimediale, quella performativa e dell’objet trouvé ribadiscono una delle prime funzioni dell’arte, quella di trasmettere un messaggio forte, altamente simbolico e capace di coinvolgere lo spettatore.
Un’arte consapevole che si oppone con determinatezza a qualsiasi ostentazione di dogmatismo, di rigidità mentale, di fondamentalismo religioso o politico, di nazionalismo esasperato, di dittatura civile o culturale.
Il percorso propone due lavori chiave: l’opera site-specific “Love Difference” di Michelangelo Pistoletto e quella del sudafricano William Kentridge che invita a superare discriminazioni e razzismi attraverso l’immagine. Due artisti propugnatori di un dialogo e di uno scambio culturale necessario: con "Love Difference", presentata nel 2005 a Venezia, Michelangelo Pistoletto ha rappresentato un tavolo che riprende la forma dei paesi che si affacciano sul Mediteranno, su di una superficie specchiante che rimanda inequivocabilmente il loro riflesso. Con quest’opera l’artista ha inaugurato un progetto d’incontro tra gli artisti di questi paesi sottolineando l’importanza dell’apporto di ogni cultura.

Il lavoro dell’artista sudafricano William Kentridge invece si è sempre distinto per una qualità processuale molto particolare con la quale egli sottolinea sempre i contenuti dell’opera attraverso l’incrocio di tecniche. Kentridge ha l’abitudine di filmare l’evoluzione dei suoi disegni. Da queste sequenze elabora il montaggio come un cartone animato dal sapore arcaico. Oltre a sottolineare il potere concettuale della tecnica a disegno, nelle sue opere Kentridge elabora un discorso narrativo a più livelli che sconfina (come in “Felix in esilio”) nella tensione tra la sottocultura e la cultura di massa degli anni Sessanta. Il suo impegno ideologico negli anni sudafricani contro l’apartheid traspare spesso nelle opere che hanno sempre per sfondo temi di denuncia delle ingiustizie sociali. Un’opera paradigmatica che con grande ironia tecnica ed estrema lucidità capovolge i mezzi di comunicazione attuale in quanto la forza della cancellazione, a tratti impiegata nel disegno e che viene filmata, offre una penetrante riflessione e meditazione sull’esistenza stessa di ciò che è rappresentato nell’opera.
L’ opera del mongolo Yerbossin Meldibekov offre una riflessione sul senso delle migrazioni mentre il video dell’ucraino Oleg Kulik indaga con grande sarcasmo il rapporto tra l’uomo con la natura, ribadendo il carattere istintivo dell’essere umano.

Di notevole spessore  il lavoro fotografico della coppia d’artisti Michael Elmgreen & Ingar Dragset che volgono le proprie ricerche alla relatività delle percezioni, decostruendo e ricostruendo strutture o immagini. Il lavoro di Diamante Faraldo porta invece il fruitore a contemplare il significato primordiale della forma, attraverso disegni o sculture.
L’esposizione presenta anche i disegni di Paolo Canevari, artista che si è sempre dedicato ad indagare le ingiustizie sociali con un linguaggio visivo eloquente che si avvale di uno stile relativo allo spiazziamento. Canevari usa accostamenti inconsueti con i quali sorprende il pubblico grazie all’alta valenza etica del messaggio finale.
Non poteva mancare una video installazione di Nam June Paik in omaggio all’amico John Cage:  i due protagonisti della scena artistica internazionale degli anni Sessanta hanno spalancato la via ad una personificazione dell’arte capace di esistere nell’esperienza performativa. Azioni artistiche in cui spicca un grande violenza fisica e di tensione nata all’epoca della contestazione e della guerra del Vietnam.
Infine tra gli artisti presentati ricordiamo il congolese Georges Adeagbo e l’indiano americano Jimmie Durham. Entrambi rappresentano quell’arte “aborigena” e multi-etnica venuta alla ribalta negli anni Novanta. Adeagbo, scoperto nel 1993, reduce di un’esperienza di vita molto sofferta, era riuscito ad esprimere quel suo mondo interiore prigioniero del condizionamento sociale e reale della sua cultura, realizzando opere “documentarie” con oggetti ed elementi della sua esistenza. Un’indagine sull’incomprensione e l’abnegazione di credenze antiche che impiega un linguaggio di “metafore” e dei mezzi (ri-utilizzo, oggetti) della propria cultura. Più che un’indagine archivistica, l’artista congolose invita il pubblico a condividere le tappe del suo pensiero. Sono universi paralleli che si evolvono in differenti luoghi del mondo e in ogni cultura dove si vedono affiorare le insofferenze e la rivolta contro l’obbedienza e la sottomissione cieca, con la quale non si rimettono in questione i soprusi dei regimi ideologici o anche religiosi.
Anche il lavoro dell’indiano americano Jimmie Durham si rivolge all’arte della propria cultura. Il noto artista si è sempre impegnato a ricordare l’arte e la spiritualità indiana, opponendosi ai processi di modernizzazione e rifiutando l’universo tecnologico dominato dall’Occidente.

RIEPILOGO. Il persorso espositivo presenta alcuni esponenti di una corrente “cosciente” che mostra con tenacia e poetica di poter ancora esistere come pensiero universale. Sono opere d’arte di alto impatto emotivo che trascendono il ristretto mondo in cui siamo confinati e con lle quali gli artisti si ribellano e danno vita a quell’arte intollerante e non sottomessa né all’abbrutimento commerciale e alle leggi sia del mercato né  dell’estetica effimera.

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L’ultimo ko dell’America

L’ultimo ko dell’America
i tesori d’arte vanno all’estero

I compratori sono russi e arabi. Nuove prospetive anche per gli artisti italiani
dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI

Benefits Supervisor Sleeping di Lucien Freud è stato battuto a 33,6 milioni di dollari

NEW YORK – La Storia ha cambiato direzione una mattina del febbraio 2004 a Manhattan. Quel giorno fu chiaro che il mondo avrebbe avuto nuovi attori, che gli Stati Uniti non sarebbero stati più l’unico protagonista e che la Russia era tornata, ben prima di invadere la Georgia o di minacciare di lasciare l’Europa al freddo. Quel giorno non ci fu nessun attentato e nemmeno un voto epocale alle Nazioni Unite, ma nella sede di Sotheby’s l’oligarca russo Victor Vekselberg si comprò per oltre cento milioni di dollari nove "uova Fabergé" che appartenevano alla famiglia Forbes. La più grande collezione privata di pezzi unici in oro e pietre preziose, che gli Zar regalavano a Pasqua, lasciava New York per tornare a Mosca.

Per raccontare lo smarrimento dell’America di fronte al dollaro debole, ai nuovi ricchi arabi, russi e cinesi che si comprano grattacieli, fabbriche e pezzi di Wall Street, ai turisti con il portafoglio pieno di euro che fanno shopping senza sosta si può anche non andare a parlare con un professore di economia o di relazioni internazionali ma usare un punto di vista completamente diverso. Per capire perché i candidati alla Casa Bianca promettono di riportare gli Stati Uniti al centro dell’economia mondiale e di ridare potere al biglietto verde si può entrare in uno dei palazzi simbolo di New York, il Rockefeller Center, e salire in un ufficio dove ai muri sono appesi quadri di Gauguin e Braque.

Edward Dolman naturalmente parla del mondo dell’arte, è uno degli uomini che conosce meglio il mercato, le sue quotazioni, la geografia della ricchezza e del potere del pianeta. Da quasi nove anni guida la casa d’aste Christie’s, che nei primi sei mesi di quest’anno ha battuto tutti i record con vendite per tre miliardi e mezzo di dollari e una crescita del 10 per cento sul 2007. "Guardando la storia del mercato d’arte – spiega – si vede chiaramente come è cambiato nei secoli il potere economico, il passaggio dall’Europa agli Stati Uniti nel Novecento, il boom del Giappone alla fine degli anni 80, e ora lo spostamento verso la Russia, la Cina e il Medio Oriente. La vendita di grandi opere d’arte si allontana dagli Stati Uniti e prende altre direzioni. A giugno per la prima volta abbiamo venduto una grande collezione d’arte americana a Londra invece che a New York. Londra è forse più importante perché lì i compratori russi si sentono più a loro agio". Dolman è inglese, ha 48 anni, il ciuffo rossiccio, ha studiato economia, storia, arte ed è stato una promessa del rugby britannico. La sua vita già spiega come sia cambiato il potere economico: prima viaggiava tra gli Usa e Londra, oggi vola a Dubai e Hong Kong.

Sono i nuovi mercati a spiegare l’anno d’oro per le aste. "Onestamente speravamo di mantenere i livelli record raggiunti negli ultimi due anni e pensavamo che il 2008 sarebbe stato più difficile, data la situazione di crisi economica. Ma questi primi sei mesi sono stati straordinari e ci hanno confuso. Non ci troviamo però di fronte a una bolla speculativa come sostengono alcuni, quello che sta succedendo nel mercato è il risultato di due cambiamenti: la provenienza dei nuovi clienti e il tipo di ricchezza che hanno, che non è comparabile con quella che conoscevamo. E poi c’è un grande cambiamento di gusti: un calo dell’interesse per le opere del tardo 19esimo secolo e del 18esimo secolo e l’attenzione al moderno e al nuovo. Questo significa che ci sono un alto numero di oggetti, perché se la disponibilità di impressionisti è molto limitata, è invece molto più grande per le opere di arte contemporanea".

In questi mesi ci sono state vendite a cifre esorbitanti, come la donna sdraiata sul divano di Lucian Freud battuto proprio da Christie’s per più di 33 milioni di dollari. Sembra impossibile pensare che i prezzi possano salire ancora. "E invece accadrà, perché ci sono molte persone che cercano le stesse opere e che hanno molti più soldi di quelli che vedevamo prima. E non sono speculatori: ma compratori che stanno creando le loro collezioni, che stanno costruendo musei in Russia, in Oriente e nei Paesi arabi e hanno deciso di investire enormi somme per costruire grandi gallerie".

Sono gli stessi che comprano le squadre di calcio in Inghilterra, i grattacieli a Manhattan, le ville in Costa Smeralda e pezzi di Wall Street. "I nostri nuovi clienti vengono non solo da Russia e Cina, ma anche da Sud America, Medio Oriente e India. Certo, vendiamo ancora in America e in Europa, ma non più come prima: se in Occidente c’è crisi, in altre regioni del mondo si sente la forza del petrolio, del boom delle materie prime e non si sa cosa sia la recessione. Ma sarebbe sbagliato trattarli come nuovi ricchi, i russi hanno una forte tradizione di collezionismo: basta andare all’Hermitage o al museo Puskin di Mosca per rendersene conto. Così penso che questi valori reggeranno e tra dieci anni ci saranno molte opere che si venderanno a 80 milioni di dollari senza più stupore".

Il re del mercato è il magnate russo Roman Abramovich, con lui Dolman condivide la passione per la squadra di calcio del Chelsea: "Quando hai clienti come lui, ne basterebbero un paio all’anno sui quale costruire. Non è gente che va e viene, sono una cinquantina nel mondo e fanno la differenza". Ma dove è finito il vecchio mondo dei collezionisti occidentali? "Hanno cominciato a vendere. Si rendono conto che sono in competizione con gente che può spendere di più e hanno cambiato il loro modo di pensare: invece di comprare guardano alle loro collezioni e vendono alcuni pezzi per molti più soldi di quelli che avrebbero mai immaginato".

Il mercato non premia solo la pittura e la scultura contemporanea, ma i gioielli, le opere d’arte orientali, le ceramiche e in particolare le porcellane del 18esimo e 19esimo secolo prodotte nei laboratori dell’imperatore a Pechino. Pezzi unici, icone che prima abitavano solo nelle case dei miliardari americani e europei e oggi si redistribuiscono nel mondo. "Una delle cose più interessanti che sta accadendo è il comportamento del governo di Pechino, che vuole tornare in possesso dei grandi capolavori cinesi che erano stati venduti all’estero secoli fa e lo fa partecipando alle aste pubbliche". Ma l’operazione che ha dato la più grande soddisfazione a Dolman è americana: "È stata la vendita della "Madonna Stroganoff", un capolavoro del 1300 di Duccio di Buoninsegna, al Metropolitan Museum nell’autunno del 2004. La cosa speciale è prendere un quadro così da una collezione privata e metterlo davanti al mondo. Ora tutti possono vederlo".

In questa rivoluzione che sta cambiando il mondo e i suoi rapporti di forza, che inquieta l’America e il suo futuro, secondo Dolman c’è spazio anche per l’Italia: i nuovi compratori andranno sempre più sulle opere di Fontana, ma anche su Manzoni e Burri e sull’arte povera a partire da Pistoletto. Ma anche noi saremo tra quelli che vendono e non tra i compratori

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il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi

L’outing del ministro della Cultura:
faccio finta, ma non trovo la bellezza

Che fatica capire l’arte contemporanea. Lo dice il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, che in una intervista al settimanale Grazia, spiega di voler promuovere e sostenere nuovi artisti, ma rivela: «Faccio fatica a trovare segni di bellezza nell’arte contemporanea: se visito una mostra faccio come molti, cioè fingo di capire. Ma sinceramente non capisco».

«Coltivo la mia spiritualità con molta fatica e molte contraddizioni.- dice il ministro – Viviamo in un’epoca priva di spiritualità e, dunque, di bellezza. Come Ministro sono determinato a custodire e conservare tutto il valore artistico che ci viene dal passato. Ma vorrei anche riuscire a promuovere e sostenere nuovi artisti. Faccio fatica a trovare segni di bellezza nell’arte contemporanea: se visito una mostra faccio come molti, cioè fingo di capire. Ma, sinceramente, non capisco».

Nell’intervista, Bondi parla tra l’altro del suo legame con Berlusconi: «Non sono attratto dal potere o dal fascino che emana bensì dall’affetto per la persona – dice – Il mio rapporto con Berlusconi è molto più complesso di come appare». Poi spiega di essere stato «uno dei consiglieri più autonomi di Berlusconi: «Il mio compito era quello di discutere in privato con lui, non quello di contraddirlo pubblicamente».

 
PS….e  questo sarebbe il nostro ministro dei beni culturali…?…Gesu, Giuseppe e Maria…salva l’anima mia…

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il provincialismo italiano

BIENNALE VENEZIA/ BONDI: SIA VETRINA DELL’ARTE ITALIANA (LIBERO)

Ministro: stop a provocazioni concettuali, spazio ad altre forme

 

Milano, 26 lug. (Apcom) – "La Biennale deve essere una vetrina dell’arte italiana che possa dare visibilità alle nuove generazioni dei nostri artisti, a quei tanti talenti che si formano nelle accademie e che spesso non hanno modo di farsi conoscere". E’ quanto scrive in una lettera pubblicata oggi da "Libero" il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi entrando nel merito dell’acceso dibattito sulla Biennale Arte di Venezia.

Il ministro rileva come "una sorta di programmatica esterofilia ha impedito che venisse esposta come merita l’arte italiana e credo che l’esaltazione dell’arte concettuale, spesso della provocazione e del non-sense, abbia impedito di dare spazio ad altre forme altrettando nobili".

Denunciando "il preconcetto ideologico" che "demonizza le tecniche tradizionali" come "espressione di pensieri reazionari e antimoderni", per Bondi "c’è la necessità di restituire dignità alla pittura e alla scultura contemporanee, specie quando esse incarnano quegli ideali di bellezza e armonia che da sempre hanno indirizzato gli artisti migliori". "Purtroppo l’arte contemporanea ha rinunciato a questi valori – continua il ministro – spesso abbassandosi a una forma di espressione sociologica che vuole comunicare solo l’orrendo e il male del mondo", rinunciando "al sacro, alla possibilità di essere un linguaggio che trascende ed eterna, che tramanda valori e credi". "Per questo mi rammarico nel pensare che in nome della moda, dell’effimero, dell’inconstante (tutti vizi che dovrebbero essere estranei alla cera arte, la Biennale abbia ceduto, diventando mostra del contingente" continua Bondi, sottolineando che questo ne "depotenzia il ruolo di una importante istituzione pubblica", che deve anche "mantenere il filo con la tradizione prefigurando nuovi mondi e nuovi stili".

Il ministro conclude la sua lettera al quotidiano di Vittorio Feltri affermando che "è giusto che la Biennale non sia più e soltanto uno spazio regalato di volta in volta a diversi curatori".

PS….IL NOSTRO PROVINCIALISMO è SENZA CONFINI….GIA’ SIAMO IN PIENO "800…CON QUESTE IDEE…CADIAMO NEL PROFONDO MEDIO EVO…LA BELLEZZA CLASSICA ITALIANA…AHAHAH…KE RIDERE…

DACO

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Da ricordare

Con i familiari sulle tracce della nipote di Piero Manzoni, scomparsa da 11 giorni

Istanbul: appello per l’artista scomparsa sul «Chi l’ha visto?» turco

La sorella e il ragazzo tappezzano Ankara di manifesti

ANKARA – La stazione di servizio della British Petroleum ha l’insegna verde, il suo colore preferito. Pippa si veste soltanto di verde; è color pisello anche il trolley che portava con sé quando è sparita da questo autogrill lungo la E5, la vecchia strada a quattro corsie che da Istanbul va verso Izmit e poi fino ad Ankara.

Giuseppina Pasqualino di Marineo (Cavicchi)

L’ultimo ad averla vista, intorno a mezzogiorno del 31 marzo, è stato uno dei benzinai: «Era ferma all’ingresso del piazzale — ha raccontato —. Ho notato una jeep frenare, fare retromarcia e andare verso di lei». Da allora di Giuseppina Pasqualino di Marineo, 33 anni, in arte Pippa Bacca, non si sa più nulla. È scomparsa mentre faceva l’autostop in abito da sposa undici giorni fa.

Un’eternità. Ma qui, e questa è la buona notizia, la cercano come se fosse viva. «I miei uomini tornano a casa solo il tempo necessario per cambiarsi » assicura Mehmet Tuzel, il capo della polizia di Ankara, che coordina le indagini. Sono giornate grigie e interminabili. Si inseguono voci, segnalazioni, verifiche e smentite. «Era a Dilova, fuori da un ristorante assieme a un barbone », l’avvistamento di una donna resterà senza conferme. «Hanno chiesto un riscatto», ma il falso allarme dura lo spazio di un controllo fatto al telefono. Da Milano la madre di Pippa lancia un appello drammatico: «O è morta o si trova in una situazione tragica. Speriamo sia un rapimento. In ogni caso non può essere scomparsa nel nulla». Credere che nessuno abbia visto qualcosa è difficile. L’autogrill di Bayramoglu, dove si è fermata quella jeep, è poco meno di un suk: ci sono bar, ristoranti, un McDonald’s, fermate di pullman e di taxi collettivi, centinaia di viaggiatori in transito. Ci sono anche molte telecamere. Gli investigatori hanno raccolto i filmati. Da quei nastri, e dalle tracce lasciate dal telefono cellulare della giovane artista, forse potrebbero arrivare indicazioni utili. Le ricerche per ora sono concentrate nella zona di Gebze, la città più vicina all’area di servizio. Sui cruscotti delle auto-pattuglia ci sono le foto segnaletiche di Giuseppina Pasqualino. Agenti in borghese fanno domande discrete, per non creare un clima che possa mettere paura a eventuali sequestratori. Il problema è che l’indagine è scattata in ritardo. Dal momento della scomparsa a quando in Italia è stato dato l’allarme sono passati quattro giorni e prima che la polizia turca potesse mobilitarsi ce ne sono voluti circa altrettanti.

Lunedì scorso su Kanal D è andato in onda l’appello del console italiano a Istanbul, Stefano Canzio. Da Roma la Farnesina ha attivato l’Interpol. Sul tavolo del pubblico ministero milanese Ilda Boccassini è arrivata la denuncia presentata dai familiari della giovane. E ad Ankara l’ambasciatore in Turchia Carlo Marsili ha preso contatto con le autorità locali: «Ci siamo rivolti ai più alti livelli di polizia e ministero dell’Interno — spiegava ieri all’Apcom —. Ci hanno assicurato che stanno lavorando al massimo per trovarla. Io posso dire che le forze dell’ordine hanno un controllo capillare del territorio». Il numero di persone scomparse in Turchia non è alto. Purtroppo la regione compresa tra Gebze e Sakarya non è un buon posto per perdersi. Criminalità, traffico di droga, islam militante, immigrazione clandestina: finisce spesso sulle pagine di cronaca nera. Il caso di Pippa qui viene definito «anomalo», ma l’idea che una giovane donna sparisca in questo modo non è facile da digerire per Ankara. E poi l’Italia è un Paese amico. Insomma, di sicuro Giuseppina Pasqualino la stanno cercando sul serio. Finora, però, nessuna notizia. I controlli negli ospedali e negli obitori hanno dato esito negativo. Così restano in piedi tutte le ipotesi: un incidente, il sequestro, oppure una tragedia. Per esorcizzare la paura che lo accompagna da giorni, il terrore che la sua fidanzata sia morta, Giovanni Chiari prova a scherzare: «Se la ritroviamo, la strada per tornare a casa la fa a calci nel sedere».

Da martedì sera Giovanni è in Turchia insieme con Antonietta, una delle quattro sorelle di Pippa. Due giorni fa sono comparsi tutti e due in diretta al programma tv di Lerzan Mutlu, una cosa a metà tra Chi l’ha visto? e uno show di Maria De Filippi. La Mutlu, bionda platinata, chiede aiuto ai telespettatori per risolvere misteri e casi lacrimevoli. Dopo la trasmissione hanno telefonato una dozzina di persone, ma nessuna aveva notizie decisive. Allora Antonietta e Giovanni si sono messi in viaggio assieme a Laleham Karadeniz, la loro interprete. Hanno seguito le tracce di Pippa dalla periferia di Istanbul fino a Gezbe e ancora più in là, lasciandosi dietro una scia di manifesti: la foto di lei che aspetta un passaggio vestita da sposa e un appello. Gruppi di uomini turchi lo leggono, poi salutano con i loro Inshallah. Ieri assieme a Silvia Moro, compagna di Pippa nella performance «spose in viaggio», i ragazzi venuti dall’Italia hanno tappezzato il centro di Ankara. Silvia ha smesso l’abito bianco per non creare confusione e falsi avvistamenti. Ricorda i giorni passati per strada, prima di dividersi per alcune divergenze sulla natura del progetto — forse anche una lite — quando chi le raccoglieva diceva: «Siete due angeli».

Mario Porqueddu

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COSA è L’ARTE

COS’E’ L’ARTE?

Chiedersi cos’è l’arte è come chiedersi cos’è la vita, tanto grande è l’estensione concettuale e pratica delle attività umane che opera sotto la denominazione di attività artistica.

Oggi, in quest’epoca supertecnologica, spiegare cosa sia l’arte è ancora più diffcile.

Allora appare opportuno puntare l’attenzione sul risultato di tali attività, cioè sul prodotto artistico: esso scaturisce dall’attività di un creatore, l’artista, il quale lo sottopone poi al giudizio di fruitori che attribuiscono giudizi di valore a tale prodotto.

I prodotti artistici nascono per sopravvivere al loro creatore e in essi si racchiudono valori spirituali eterni, scaturiti dalla esperienza personale dell’artista circa la realtà sociale in cui vive o è vissuto o vivrà.

Le opere d’arte, quindi, hanno l’importante compito di essere una fonte comunicativa di testimonianza di valori che da temporali divengono eterni.

Tenendo conto che l’arte non riguarda solo la sfera prettamente culturale, ma convive con ciascuno di noi nel quotidiano ( vedi i nostri vestiti, gli oggetti di cui ci serviamo per le nostre occupazioni….) un qualsiasi tentativo di definizione è quasi impossibile dal momento che sono numerose le scienze umane che hanno per oggetto di studio questa attività ( storia dell’arte, psicologia, sociologia, estetica, antropologia,….).

Il prodotto artistico scaturisce da un atto creativo dell’artista, colui che da antico artigiano a genio per antonomasia ha attraversato, nella storia, tutti i ceti sociali. Questo percorso storico ha permesso la nascita di molti “topos” sulla figura del creativo, di colui che possiede quella strana capacità di generare dal niente un “oggetto” che ora c’è e prima no, frutto di una sua idea nata in un luogo oscuro, misterioso, della sua mente.

Nel paleolitico superiore l’uomo sviluppa capacità intellettive proprie della sua specie. he successivamente attività artistiche grafico-pittoriche che pare avessero uno scopo comunicativo ed esorcistico.

La nascita dell’arte determina la nascita culturale dell’uomo, a sua volta costruito dalla sua stessa cultura entro un processo dinamico che conduce sino a noi percorrendo una esperienza di vita antica, ma sempre nuova e rinnovabile ove l’arte si pone come una caratteristica intrinseca universale della specie umana.

Il prodotto artistico nasce da un atto creativo, che implica sempre il concetto sovversivo di “creatività”.

La parola creatività include sempre il carattere di imprevedibilità, cioè un processo di pensiero che sfugge totalmente alle leggi deterministiche e influenza il concetto del “bello” moderno: bello è ciò che è spontaneo, originale e genera risposte individuali.

Quando al frutto di questo atto creativo vengono attribuiti anche giudizi di valore esso diventa arte.

Rita Ferraresi

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Massimo Gioni:l’arte contemporanea sono io

Massimiliano Gioni: L’arte contemporanea sono io

Di Elena Molinari

Persino la Romania incuriosisce più dell’Italia i collezionisti stranieri. E mentre a New York, Londra e anche Madrid gli artisti si sono buttati nel nuovo millennio postindustriale, ecologico e iconoclasta, un curatore italiano per trovare un movimento artistico di rottura deve tornare all’Arte povera: di 40 anni fa. Oppure imparare l’inglese e andare a organizzare mostre altrove, dove ci sono spazi e pubblico per opere non convenzionali. Peccato che i curatori e gli artisti italiani non lo facciano abbastanza.
Non vuole fare polemica Massimiliano Gioni, 34 anni, direttore delle mostre speciali del New Museum of contemporary artNew-Museum-of-Contemporary-Art Nov-07 di New York e, dal 2003, direttore artistico della Fondazione Trussardi. Ma parlando a ruota libera nella nuova sede del New Museum, un palazzo fatto di sette scatole sovrapposte e incastrato in mezzo a due minute palazzine in uno dei quartieri più bohémien di New York, le sue opinioni sull’arte contemporanea nostrana escono senza filtri.
Il palazzo del New Museum nella Bowery, firmato dallo studio Sejima e Nishizawa-Sanaa, è composito, come la mostra che Gioni e i due altri curatori del museo, Richard Flood e Laura Hoptman, hanno ideato per inaugurare la nuova sede e per sintetizzare alcuni elementi chiave dell’estetica del XXI secolo. Un secolo che si è aperto con la caduta delle Torri gemelle, con i buddha afghani ridotti in polvere e con la statua di Saddam Hussein trascinata al suolo. Con scene di distruzione, insomma. “Non a caso la mostra, Unmonumental, mette in evidenza un ritorno alla tecnica dell’assemblaggio e del collage, a circa 100 anni dalla sua nascita, e l’uso di oggetti trovati, di forme frammentarie, fragili, improvvisate e instabili” spiega Gioni. “E celebra l’apertura di questo monumentale edificio ricordando che i monumenti sono effimeri e che le idee che li ispirano vanno sempre messe in discussione”.
Non cercate nomi italiani fra gli artisti in mostra. “Non ce ne sono” taglia corto Gioni. A voler proprio vedere, si può trovare qualcosa di italiano “nella tendenza al riutilizzo dei materiali: è un’eredità appunto dell’Arte povera”. Poi però Gioni deve ammettere che il linguaggio di forme e colori che si articola in questi giorni nelle sale del museo è più assordante ed eccessivo di qualsiasi lavoro si possa trovare a Roma, Milano o Spoleto. “Questa è arte nata in metropoli popolate di rifiuti, con cui l’artista impara prima a convivere e poi decide di inserire nel suo lavoro”.
Una sensibilità che da noi manca e non perché le nostre città siano più pulite. “L’arte contemporanea in Italia è più formalistica. Non sa ancora essere così aggressiva. È dominata da una tradizione di ricerca dell’equilibrio e della bellezza. Può essere un pregio, ma anche un limite. Anche quando l’arte italiana arriva a eccessi, come quella di Maurizio Cattelan, cerca sempre una misura”.
Gioni, che tramite la Fondazione Trussardi ha portato Cattelan a Milano e poi con lui e la curatrice Ali Subotnick ha fondato una galleria (la Wrong Gallery a New York e poi alla Tate Modern di Londra), quindi progettato una Biennale (Berlino) e inventato una rivista d’arte (Charley), non accuserebbe mai l’artista padovano di non essere audace. Ricorda bene le polemiche che accompagnarono l’impiccagione di tre bambini-manichini firmati da Cattelan in piazza XXIV Maggio a Milano.
Ma un Cattelan, un Francesco Vezzoli o una Vanessa Beecroft non bastano a liberare l’arte contemporanea italiana da una letargia che secondo Gioni la rende sempre meno interessante agli occhi del mondo.
“Non siamo più esotici solo perché siamo italiani. Ora i curatori americani vanno in Europa dell’Est o in Cina. E noi intanto non abbiamo saputo costruire un sistema espositivo come quello della Gran Bretagna, della Germania e della Spagna”. Le istituzioni italiane, infatti, “non percepiscono l’arte contemporanea come strumento di promozione del Paese”.
Gioni allora ha deciso di fare come i suoi modelli, Germano Celant e Francesco Bonami, ed è andato a cercare altrove quello che manca in Italia. “La mia domanda a questo punto è: riusciranno gli artisti italiani a trasformare le debolezze della nostra società in punti di forza? A fare come Giorgio Morandi, che ha raccontato con ossessiva ripetizione un piccolo mondo, riuscendo così a dargli un valore universale?”.
Gioni non ha risposte, torna a parlare della sua Unmonumental, che gli dà più certezze. E che è impressionante, con le sue enormi composizioni multiformi, sgraziate e variopinte che dominano lo spazio vuoto e silenzioso del museo. Vuoto per poco: presto compariranno sui muri 13 opere di collage bidimensionali commissionate ad altrettanti artisti internazionali. E silenzioso fino a febbraio, quando arriveranno i rumori e le sinfonie di altri 13 artisti. “La mostra stessa è un lavoro di collage” spiega Gioni.
A marzo sarà sostituita da tre esposizioni, una per piano, una per ogni curatore del museo: Gioni, Richard Flood e Laura Hoptman. Lui allestirà quella del giovane artista americano Paul Chan, che presenterà luci e ombre proiettate sul pavimento, che il pubblico potrà attraversare e calpestare.
Pensare a Chan lo fa tornare all’Italia. “L’unico posto in Italia dove qualcosa del genere sarebbe possibile è la Fondazione Trussardi. Lì facciamo cose incredibili. Il 29 gennaio useremo per la prima volta Palazzo Litta a Milano. Si esibiranno Peter Fischli e David Weiss, un duo artistico svizzero, tra i piu importanti innovatori dell’arte contemporanea. Penso che il New Museum mi abbia voluto per questo tipo di lavoro che ho fatto e perché l’aiutassi a reinventare la sua identità”.
I paragoni fra Milano e New York, però, si fermano qui. “La differenza più grossa la fa il pubblico. L’audience qui è incredibile. Per l’inaugurazione della nuova sede il New Museum è rimasto aperto 33 ore di fila. Ed era sempre pieno, anche alle 4 di notte. Sono passate 30 mila persone. A Milano invece ogni progetto è una sfida. Non si sa mai come il pubblico o la critica reagiranno. E ogni mostra non convenzionale ha un effetto dirompente, quindi anche una funzione educativa”.
Appena arrivato a lavorare a New York Gioni ha avuto l’impressione di essere entrato in una comunità artistica dove nessuna opera è isolata, ma si inserisce in un contesto fatto di film, libri, altri quadri e altre sculture e abitato non solo di critici e collezionisti, come pure di famiglie con i bambini al seguito. “Una tradizione tutta newyorkese, che da noi non esiste”. E che è stata alimentata, a detta di Gioni, anche dalla pubblicità, con la quale gli artisti più giovani hanno un rapporto quasi simbiotico.
“Gli artisti degli anni Novanta sono cresciuti masticando riviste e immagini di moda, della televisione, della pubblicità. Più o meno consciamente ne hanno adottato le strategie, trovandosi a usare un linguaggio più immediato. I mezzi di comunicazione di massa ricambiano il favore offrendo loro più spazi e appropriandosi delle loro immagini. Quindi oggi si può facilmente convivere con le opere di artisti come Matthew Barney, Damien Hirst o Jeff Koons, anche senza averle mai viste in una galleria”.
E soprattutto senza averne mai comprata una, visto che la media dei pezzi d’arte contemporanea battuti alle aste è oggi vicina al milione di dollari.
“L’impennata dei prezzi nell’arte è incredibile e può essere un problema” continua Gioni. “Il potere del denaro è così forte che si tende a interpretare il valore dell’opera in base al suo costo. Ma in realtà il valore commerciale delle opere è sempre meno un segno del successo dell’artista”. Se però i prezzi crollassero, ammette, il sistema delle gallerie potrebbe arrestarsi di colpo. “Ogni anno galleristi e curatori si dicono che più in alto di così non si può andare, che è l’inizio della fine, che non si venderà niente. Poi arriva un’ondata di nuovi compratori, come i russi o i cinesi, si segna un nuovo record di vendite e tutti tirano un sospiro di sollievo”.

C’è un commento a Massimiliano Gioni: L’arte contemporanea sono io

  1. Il 5 Gennaio 2008 alle 20:40 artisticamente ha scritto:

    L’arte è preda di un paese con poca crescita culturale; in cui si legge molto poco, è un paese in cui i giovani guardano ai più furbi come modelli da seguire perché possono permettersi auto, case e perfino donne di lusso; è un paese in cui se raggiungi il massimo risultato con il minimo sforzo sei un simbolo positivo, un grande.
    Questo diventare “qualcuno” utilizzando scorciatoie e compromessi è qualcosa di insito nella cultura italiana, qualcosa di radicato veramente in profondità, il “sistema arte” si riflette…..

    Il sistema dell’arte in Italia è corrotto, alterato e arbitrario: critici prezzolati come voraci mercanti, musei come luoghi di promozione concordata da direttori vittima e complici di collezionisti avidi, arte come prodotto del supermercato.
    Tutto ciò ha contribuito alla reale sparizione dell’arte dall’orizzonte della cultura virtuosa, ad una cronica mancanza di idee e ad una generalizzata caduta qualitativa dei bisogni dell’uomo che guarda e vede oltre.
    Dell’arte resta lo spolpato scheletro della logica del mercato globalizzato restano e si generano fiumi di opere di maquillage di sterile “trovata” dai molteplici aspetti fuorvianti, falsamente innovativi, dalla Cina all’Argentina, dalla Russia al Messico.
    L’artista intanto, quello che sviluppa in assoluta ilbertà i propri convincimenti creativi, la sperimentazione e ricerca, viene emarginato, anzi dimenticato anche dalle istituzioni pubbliche, “dimenticanze” gravissime e fortemente lesive nei confronti degli artisti e del loro lavoro, anche patrimonio al servizio dello sviluppo e della crescita culturale del Paese.
    L’arte non é solo mercato: acquistare per fare un buon investimento é una logica di chi considera l’arte come un assegno bancario…, in questa logica é quasi naturale che proliferi la truffa, il falso, il raggiro; Ma se un pubblico dell’arte esiste, bisogna coinvolgerlo, e attirarlo negli studi artistici, creare un sistema di relazioni, un circuito baipassante che interponga alla forza del mezzo mediatico una genuina necessità dell’arte, come l’amore, la fame, la gioia di vivere sensazioni….

    Credo sia necessario ricercare un dialogo fra artisti, spingere e lavorare per proporre sul positivo ciò che si può fare per valorizzare l’arte con gli operatori del settore.
    Non perdiamo questo treno, occasione unica per progetti da sviluppare che si possono riassumere in pochi ma chiari punti:
    1) Portare a livello accessibile nei Comuni a quanti lo desiderino , con strutture adeguate alle esigenze ad esempio ex aree industriali abbandonate, la conoscenza dell’architettura e dell’arte contemporanea locale, con la collaborazione d’intesa anche con altre Amministrazioni interessate.
    2) La valorizzazione della creatività e delle opere di artisti ed architetti, anche mediante l’organizzazione di concorsi e di premi; rispettando alle norme sul diritto d’autore, la vigilanza su alcuni enti di diritto privato che ricevono i contributi dallo Stato, e aprire la strada sulla realizzazione di opere d’arte negli edifici pubblici anche in base alla legge che riserva a tal fine il 2% della spesa prevista per la costruzione.
    Stefano Rollero.

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L’energia dell’arte contro il potere

L’ energia dell’arte contro il potere

STEFANO CHIODI

MILANO
C’è un punto, probabilmente, superato il quale un’epoca diviene d’improvviso un «oggetto» visibile e pensabile, qualcosa che riusciamo a mettere a fuoco. Questo momento sembra essere ormai giunto per gli Anni 70: la loro immagine, un po’ come accade in uno dei film più belli di quel decennio, Solaris di Andrej Tarkovskij, si è solidificata in una costellazione di forme, di linguaggi, di colori, di azioni finalmente decifrabili. In uno stile, insomma. Che è poi però, inevitabilmente, e oltre ogni facile e nostalgico revival, recalcitrante a ogni definizione generica, a quelle generalizzazioni, a quei provvidenziali «ismi» che tanto tornano utili altrove nella vicenda del XX secolo.

Perché se c’è un tratto che gli Anni 70 condividono con i nostri, e soprattutto nel campo della sperimentazione artistica e visiva in genere, è proprio la diversità e la radicalità delle inflessioni, il loro coesistere in un piano dominato dalla consapevolezza della natura codificata, relazionale, dell’esperienza, della sua politicità. Età critica e plurale, dunque, e anche età di mezzo, stretta com’è tra l’esplosione euforica e iconoclasta degli Anni 60 e gli scuotimenti postmoderni dell’ultimo ventennio del Novecento. Che scaglia tutta la sua energia contro la nozione stessa di «istituzione», contro il potere, i condizionamenti dell’identità: è il tempo dello sguardo da fuori, simboleggiato nell’immagine della Terra vista dalla Luna con cui si apre il decennio. Dalle analisi concettuali di Joseph Kosuth all’attività di Joseph Beuys, l’artista-sciamano che comunica col mondo animale e ancestrale, dalle abissali riflessioni sul tempo e l’immortalità di Gino de Dominicis alla concentrazione energetica delle performance di Marina Abramovic e Ulay, il campo dell’arte è percorso negli Anni 70 da una tensione che è anzitutto critica dell’esistente, ricerca dell’alternativa, messa in discussione dei limiti, apertura, rivolta.

Riavvicinare l’arte alla vita significa così per Gordon Matta-Clark tagliare materialmente i muri per far irrompere la luce del giorno all’interno degli edifici oppure, come nel caso di Chris Burden, sottoporsi a ritual i violenti e spettacolari (nella sua performance più famosa, Shoot, si farà sparare), secondo una modalità – come ci fa capire Stanley Kubrick in Arancia meccanica – connaturata alla fase estrema del moderno e culminante, alla fine del decennio, nell’esplosione di autodistruttività nichilista del punk.

L’immaginario artistico degli Anni 70 appare dominato da due direttrici dialetticamente contrapposte, l’elevazione e l’espansione da un lato, lo scavo e la dissezione dall’altro, che ci appaiono oggi in effetti come due facce di una stessa moneta. Come sapeva bene Alighiero Boetti, fare arte vuol dire entrare nel cuore della lotta senza fine tra ordine e disordine, tra caso e necessità: i suoi meandri geometrici, come i suoi planisferi ricamati, sono immagini della silenziosa sfida per catturare e trattenere il tempo, per renderlo abitabile, per sottrarsi temporaneamente all’entropia.

Questa è anche precisamente l’eredità degli Anni 70 che oggi, nel nostro mondo globalizzato, molti artisti rimettono in circolo: l’idea che sia indispensabile incrinare l’apparente uniformità, la pelle liscia dell’immaginario mediatico, per fare dell’arte uno strumento di illuminazione del presente.

 

 

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Il bello degli anni 70

Il bello degli Anni 70

 

Ma quale decennio "in grigio". La vita fu come la tv: a colori

MARCO BELPOLITI

Qual è il colore della R4 in cui è acciambellato il corpo di Moro? Grigio. E il colore del corteo in cui i giovani autonomi puntano la pistola contro la polizia? Grigio. E ancora: di che colore sono i corpi nudi dei ragazzi che danzano al Parco Lambro? Grigi. Eppure nel 1977 iniziano le trasmissioni della televisione a colori, cui si è fieramente opposto La Malfa, con uno scatto da autentico calvinista: la tivù deve restare il bianco e nero; cade persino un governo per questo. Per ritrovare il colore degli Anni 70, i vestiti sgargianti, le decorazioni degli Indiani metropolitani, per riavere i colori delle vetrine di Fiorucci a Milano, le stoffe indiane, le tuniche degli «arancioni», i colori delle automobili e il rosso delle Ferrari, per riavere il colore dei filmBarry Lyndon (1975) è il film più a colori «naturali» di tutta la storia del cinema – bisogna fare uno sforzo di memoria, oppure ricorrere alle pagine dell’Espresso-colore, allegato al settimanale. Il colore non abita le nostre memorie; le stesse immagini dei fotoreporter dell’epoca, su cui abbiamo modellato i nostri ricordi personali e collettivi, sono sempre in bianco e nero. Lì le periferie urbane appaiono più squallide della realtà: in quei rettangoli di carta i campetti da calcio – la Roma delle borgate di Pasolini, la Milano estrema di Testori – sfumano verso il grigio.

In realtà negli Anni 70 il colore raggiunge un culmine: una città sgargiante, quasi psichedelica, prima che la cromofobia di Armani e dei creatori di moda rendessero i vestiti simili agli abiti di un pastore luterano. Gli Anni 70 decretano il trionfo del corpo, portando a compimento la rivoluzione iniziata a metà del decennio precedente. Il colore scende nelle strade: Living Theatre, Gorilla Quadrumano di Scabia e degli studenti del Dams, Marco Cavallo al manicomio di Trieste con Basaglia. Dario Fo, non ancora Premio Nobel, polemico autore di commedie antisistema, nei filmati d’epoca veste maglioni arancioni, e non i dolcevita neri alla Strehler. I corpi nudi che appaiono sulle pagine dei settimanali, di hippy e figlie dei fiori, sono rosa, solo a tratti arrossati o congestionati, ma mai bianchi o biancastri. Il bello degli Anni 70 è la Terra vista dalla Luna: un pianeta azzurro, la cui immagine ci arriva dallo spazio attraverso le missioni Apollo. Il decennio inizia il 21 luglio 1969 con lo sbarco lunare, e termina il 2 agosto 1980, alla stazione di Bologna, la prima strage a colori della storia repubblicana, come ha notato Riccardo Bocca. Il bello degli Anni 70 è nei cortei, nelle bandiere, nei cartelli, un fiume più o meno carsico che attraversa le città italiane ma raggiunge anche l’India, il Nepal, l’Afghanistan, la via verso Oriente non ancora chiusa, che transita attraverso i tessuti, gli arredi, gli addobbi. Sono colorati – sui quotidiani in bianco e nero – persino i lugubri drappi delle Brigate Rosse.

Il colore che trionfa è quello della plastica, dei mobili, delle suppellettili, dell’oggettistica, del design radicale che debutta in quel periodo e trionferà negli ‘80. Sono i piccoli e grandi maestri del decennio: i due fratelli Castiglioni, Enzo Mari, Magistretti. Negli Anni 70 il design raggiunge il suo culmine: allegro, ironico, inventivo, e sempre colorato. È il trionfo del made in Italy proprio mentre si entra nel tunnel del terrorismo, quasi che la società italiana del decennio vivesse come una doppia vita, una sorta di allegra schizofrenia: da un lato, la spirale assurda e terribile del terrorismo; dall’altro, l’allegria di una società che cresce nonostante la gelata della crisi petrolifera, che cerca nuove forme di espressione grafica, visiva, artistica. Questo è il periodo in cui trionfa la società di massa, anche attraverso strappi e messe in discussione dello status quo – divorzio, aborto, politicizzazione, conflitti di classe -, toccando dei vertici di partecipazione mai più raggiunti. Gli anni ‘70 sono l’epoca della riscoperta dell’amore e della tenerezza, del femminismo e insieme dei sentimenti. Sillabario n. 1 di Goffredo Parise esce un mese prima delle Città invisibili di Calvino. Siamo nel ‘72. Reca in copertina un’opera di Giosetta Fioroni, Smalto rosso con foglie, piume e sassi, che raffigura un cuore e contiene foglie, petali, rametti, penne. «Un bel cuore pop ma anche romantico», dice Giulio Einaudi, il suo editore. Il libro di Parise è un diario sentimentale, tutto delicatezza e malinconia, nessuna passione bruciante, se non quella del desiderio. Incarna perfettamente la leggerezza di cui Calvino scriverà molti anni dopo, e di cui Le città invisibili, il suo capolavoro, fornisce il primo esempio. Sulla copertina del volume dello scrittore ligure c’è un’isola di pietra che galleggia nel vuoto: pesante e leggerissima nel medesimo tempo. Un quadro di Magritte.

Cinque anni dopo arrivano le lettere a Lotta continua, i discorsi sul cuore e i sentimenti, le tenerezze tra compagni. Anche l’omosessualità chiede cittadinanza e visibilità. Quest’onda di affetti non si è ancora trasformata in «riflusso». Convive con la politica. Certo, nel ‘76 arriva Porci con le ali, con Antonia e Rocco che fanno l’amore per la prima volta e poi decidono di non rifarlo più tra loro se non l’avranno fatto con altri, in obbedienza, come ha osservato Gianfranco Marrone, allo «spirito dell’epoca». Nel decennio, ci sono almeno due libri sull’innamoramento: Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (‘77) e Innamoramento e amore di Francesco Alberoni (‘79). La vera opposizione, ha scritto nel catalogo della mostra Marrone, è tra tenerezza e desiderio, tra languore e scarica erotica. Una doppia pulsione che attraversa il periodo e che, a tratti, si tramuta in funesto desiderio, la cupio dissolvi dei terroristi, o in amore della lontananza di mistici e nuovi monaci. Dentro il mondo, lontano dal mondo. Anche questo appartiene a questo contraddittorio del decennio.

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Censurata mostra arte omosessuale

Vade retro arte

Dopo mille polemiche è stata annullata la mostra sull’arte omosessuale

14 07 07 | di: Federica Mantovani

 
 

La provocazione non è ben accetta a Milano. Lo avevamo già capito qualche tempo fa quando Cattelan espose i suoi tre bambini impiccati sui Navigli e qualcuno pensò di levarli perché “erano brutti e infastidivano i passanti”. La conferma l’abbiamo però avuta in questi giorni con la polemica sfociata nella censura della mostra sull’arte omosessuale.

Ma ripercorriamo le tappe: a inizio settimana viene presentata ai giornalisti Vade Retro Arte e Omosessualità, che conta 150 opere di artisti diversi. Subito scoppia la polemica per colpa di tre lavori scandalo, il Papa in versione omosessuale, una foto di Sircana rielaborata e “l’ermafrodita”. 

Sgarbi, l’assessore alla Cultura, tenta di risolvere il caso comprando l’opera raffigurante il Papa e togliendo dalla mostra l’immagine di Sircana. Ma questo non basta a tranquillizzare gli animi della giunta e, dopo due giorni di frenetiche discussioni, i cittadini milanesi scoprono che la mostra è stata annullata. Stop, fine della questione ma non della querelle.

La giunta guidata dal Sindaco Letizia Moratti avrebbe permesso l’esposizione solo se fossero state tolte 60 opere. Un numero troppo elevato sia secondo Sgarbi sia secondo gli organizzatori della mostra. E proprio per questo si è deciso di cancellare Vade Retro, che probabilmente verrà ospitata a Napoli o a Savona.

Un ironico Sgarbi, dopo essersi rivolto alla Moratti chiamandola “Suor Letizia”, ha risposto così a chi gli chiedeva se avesse pensato alle dimissioni, “è più divertente continuare a fare l’assessore”.

La polemica attorno alla mostra censurata è destinata a durare ancora per tanto. 

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Vive d’arte solo un artista su cinque

Vive d’arte solo un artista su cinque

Speranze e frustrazioni dei giovani creativi italiani in una ricerca della Fondazione Agnelli

RENATO RIZZO

TORINO
L’artista, in Italia, è «contemporaneo» perchè fa l’artista e, «contemporaneamente», deve trovarsi un’altra attività per vivere»: questo gioco d’amare parole è l’incipit del «viaggio» compiuto da due ricercatori tra le voci e i numeri della giovane arte contemporanea. L’arte, spesso, non dà pane. Perché, come sostiene Francesco Jodice, uno che ce l’ha fatta a dispetto delle statistiche, «per le istituzioni del nostro Paese, la tutela dell’arte, spesso, si ferma alla protezione del passato e prende in scarsa considerazione ciò che viene prodotto oggi». Giulia Bondi e Silvia Sitton hanno indagato e interpretato, grazie a una borsa di ricerca stanziata dalla Fondazione Agnelli e dalla UniCredit Private Banking, l’arte, il suo mercato, il reddito che fornisce. E, in particolare, hanno frugato nelle gioie e nelle frustrazioni, nelle ambizioni e negli umori di chi, tra i 20 e i 50 anni, affida alla tela, alla fotografia, alla scultura, alle «istallazioni», il senso della propria vita.

Ma qual è l’identikit economico e sociale di questo «facitore d’arte» che emerge da 150 questionari, 76 interviste realizzate dagli autori a 69 maschi e 44 donne e dagli incontri con 250 tra artisti, galleristi, critici? Risponde la Bondi: «Intanto la maggior parte di essi proviene da famiglie benestanti e quasi due terzi hanno un secondo lavoro». Non c’è contraddizione tra le due realtà? «Solo apparentemente: è vero che, a volte, i genitori sono pronti ad aiutare i figli nel coltivare il proprio sogno, ma, spesso, quest’appoggio è solo una piccola spinta che rende, comunque, indispensabile un’attività remunerativa. Anche per autofinaziarsi».

Il reddito medio dei giovani artisti – compresi aiuti famigliari, stipendi e borse di studio – s’attesta attorno ai 13 mila euro e diventa inferiore del 20% se si tratta di donne. A vivere di sola arte, è solo uno su cinque. Dura legge, ma legge quella del mercato sintetizzata senza troppe infiorature da Jeff Koons – autore, tra l’altro, del mastodontico cane – quello sì, infiorato – che campeggia di fronte al Guggenheim di Bilbao: «L’arte non consiste nel fare un quadro, ma nel venderlo». È, questa, un’altra faccia della ricerca: quali e quante sono le opportunità commerciali di chi, da noi, vuole intraprendere la «carriera» d’artista?».

«Le opinioni degli addetti ai lavori oscillano tra due poli: quelli favorevoli al mercato per la sua funzione selettiva e di scambio monetario e culturale; ai quali si contrappone chi è convinto che la valutazione data dal mercato a un’opera sia, soprattutto, legata a meccanismi speculativi e relazionali». Nella «forbice», cento sforzi – o veri e propri éscamotages – per acchiapparlo, questo benedetto mercato. Un esempio estremo lo propone la napoletana Betty Bee che, un po’ per celia e, forse, un po’ per non morire, illustra il suo progetto d’«adozione a distanza»: un meccanismo simile a quello che regola le adozioni dei bimbi del Terzo Mondo: versi una cifra mensile per sostenerli e trasformarti in loro «genitore». Per l’arte si potrebbe fare così: versi 20 euro al mese per un anno e ricevi in cambio la fotografia di un’opera che, alla scadenza delle rate, diventa tua».

Difficile la vita dell’artista italiano: specie se – come sostengono i ricercatori e come sottoscrive Francesco Jodice – vive in certe città del Sud (con la sorprendente esclusione di Napoli, prima nel Paese per effervescenza d’iniziative): pochi amministratori pubblici ed esigue istituzioni private sembrano condividere l’affermazione di Robert Storr, direttore della prossima Biennale di Venezia: «Gli artisti non sono forza lavoro e il loro successo è impossibile da quantificare». Così c’è voglia d’emigrare. Accanto alla fuga dei cervelli, quella dei pennelli? Bondi: «Olanda, Inghilterra, Germania, Usa rappresentano i miti. Ma il 66% degli intervistati assicura che rinuncerebbe volentieri a cercare il successo lontano da casa se potesse avere, qui, uguali opportunità». In «casa», però, oltre al capoluogo campano, ci sono rare eccezioni a confermare cospicue regole di «nulla» o di sterili «guerre tra bande nell’ambito della promozione pubblica o privata dell’arte»: il caso-Torino, per esempio: «A Roma si parla, a Milano si vende, a Torino si fa» sostiene, con uno slogan efficace, un intervistato. E, così, il capoluogo subalpino è, inserito al secondo posto, sia nella classifica dei «luoghi chiave», sia in quella degli emergenti». Qui, osa Francesco Jodice, la giovane arte vive una «condizione paradisiaca»: «Fondazioni, musei, istituti bancari costituiscono un sistema capace di dialogare anche con le gallerie creando uno spazio partecipato». Se «Caravaggio per diventare Caravaggio è andato a Roma», i futuri Merz o Penone potrebbero trovare forza sotto la Mole.

PS.  Aggiungo una domanda, l’arte oggi in Italia è libera ? Si, ognuno è libero di esprimersi come vuole…ma, il mercato dell’arte è libero …?!  Cioè cosa passa dal setaccio del  nostro noto provincialismo ?!  Del nostro sistema mafioso populista ?! Dagli interessi di tanti galleristi dediti al non rischio…impostati nel vendere il quadretto tanto  "carino" da mettere sul caminetto …del "noto artistello di paese"  tanto di moda ?!…Ricordo che l’arte italiana figura come fanalino di coda nell’arte internazionale…l’unica che conta…e che vale.

                                                                                                                                        DACO

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Writers e artisti fanno esplodere lo stile di strada

Writers e artisti fanno esplodere lo stile di strada
Al Pac di Milano la rassegna «Street Art, Sweet Art», dalla cultura hip hop alle bande di writers urbani come Pao (l’artista dei panettoni-pinguino), Pus, Bros, Ivan e Tv Boy (il bambino con testa-monitor)
Serena Valietti
Milano
Tra guerriglia urbana e ammiccanti iconografie pubblicitarie, contro l’establishment a priori o seguendo una linea morbida che non attacca direttamente, ma fa riflettere sulle storture della società contemporanea, ecco dove si collocano gli artisti invitati dal curatore Alessandro Riva a partecipare alla mostra in corso al Pac di Milano «che sono stati scelti in base al valore della loro ricerca artistica ma anche per il loro rapporto con il contesto urbano in cui operano».
Street art, sweet art è il titolo di questa collettiva a cui partecipano i migliori artisti italiani che come tela hanno scelto i muri grigi delle città, i sottopassaggi delle metropolitane e ogni altra superficie urbana su cui si possa scrivere o dipingere. La scelta di rimanere legati agli spazi della città è politica, o meglio ancora sociale, «poiché la mia attività è fortemente improntata alla relazione con la gente che ogni giorno cammina per i marciapiedi – racconta Ivan, il poeta di strada – io opero alla luce del sole, a volto scoperto e spesso le persone che mi vedono lavorare si fermano a parlare con me». E mentre il poeta regala ai muri grigi di Milano un’anima con versi come chi getta semi al vento farà fiorire il cielo, Falko e Abbominevole, lavorano gratuitamente con i ragazzi «cercando di trasmettere loro quello che amiamo così tanto fare da anni – spiegano i due artisti – cerchiamo di motivarli, di offrire loro spunti e possibilità di muoversi in contesti creativi che vanno dal video, alla musica, alla street art; vogliamo far passare il messaggio che non per forza ci devono essere soldi per creare qualcosa, da fotocopie, a stickers e pittura da imbianchino: con la creatività tutto può diventare arte».
Workshop ed esperienze simili sono state inserite anche tra gli eventi collaterali della mostra, in cui i writers incontreranno i più piccoli per parlare della loro esperienza sulla strada e li affiancheranno nei laboratori di stencil art. «La risposta delle scuole è stata altissima – racconta Atomo, storico writer milanese e coordinatore dell’evento – i centralini del Pac sono stati letteralmente presi d’assalto dagli insegnanti che volevano prenotare visite guidate, laboratori e incontri con gli artisti».
Pienamente raggiunto quindi uno degli obiettivi alla base di questa mostra: aprire un dialogo con la città, riportare l’attenzione sui ragazzi e sul loro rapporto con lo spazio in cui quotidianamente si muovono, vivono e che sentono il bisogno di fare proprio, «rompendo le normali relazioni instaurate nella routine urbana e costruendone di nuove attraverso la creazione di codici linguistici e espressivi propri – spiega Alessandro Riva – Quella esposta nelle sale del Pac è la generazione pop-up, un gruppo di artisti che compare e scompare nel panorama urbano, che comunica con la gente con opere, adesivi o con un grande poster incollato a tre metri d’altezza raffigurante il volto di uno sconosciuto, simbolo dell’incomunicabilità e dell’indifferenza che regnano in una metropoli come Milano».
È in questo senso che la street art si carica di un valore fortemente sociologico: riconnota e riqualifica quegli spazi che Marc Augé definiva non luoghi, aree di passaggio, svincoli, viadotti e muri spogli, spazi senza senso e storia a cui i writers ridanno forma e colore, donando loro un nuovo significato e nuovo valore anche per chi li attraversa ogni giorno e che si ferma sorridendo davanti ai pinguini di Pao disegnati sui paracarri o perdendosi a scoprire gli insetti e le forme di vita sconosciute dei lavori di Microbo.

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